Proprio nel momento in cui i drammaturghi, sulla scorta dell’esempio alfieriano e sotto l’influenza di una particolare temperie culturale connessa anche alla situazione di instabilità politica della nazione, tendono a enfatizzare la partecipazione emotiva del pubblico, coinvolgendolo per quanto possibile, nel calore dell’azione e nel viluppo delle grandi passioni scatenate nei personaggi, Manzoni si mantiene coerente con i fondamenti della sua poetica drammaturgica, prendendo le distanze da quel teatro che i moralisti francesi avevano condannato per proporre un nuovo e diverso modello tragico. Egli chiede al drammaturgo di essere vero e di muovere alla certezza che “non è comunicandosi a noi che le passioni possono commuoverci in un modo che ci prenda e ci piaccia, ma favorendo in noi lo sviluppo della forza morale, grazie alla quale sono dominate e giudicate (…). Facendoci assistere ad avvenimenti che non ci interessano come attori, in cui siamo soltanto testimoni, può aiutarci a prendere l’abitudine di fissare il nostro pensiero su quelle idee calme e grandi che si cancellano e svaniscono per l’urto con la realtà quotidiana della vita e che, coltivate con maggior cura e tenute più presenti, senza dubbio assicurerebbero meglio la nostra salvezza e la nostra dignità.”