Il «buon christiano e bon italiano», come si legge nella summa autobiografica alla madre, che, davanti alla “fuga” di Federico da Pavia, si era posto un deprecante interrogativo: «E come diavolo non sono io obligato a dire che è falso, quel falso, che se fosse creduto per vero, potrebbe far tanto disordine?», tre mesi dopo il sacco (25 agosto) confessa a Vittoria Colonna di arrendersi alla sconnessione degli eventi, dichiara la propria difficoltà a parametrare la storia: «Hora che le calamità intervenute sono tanto grandi, che quasi come universal diluvio hanno fatte le miserie d’ognuno eguali, pare che a tutti sia licito e forse debito, scordarsi d’ogni cosa passata, et aprire gli occhi, e almen uscir della ignoranza humana insino a quel termine, che la nostra imbecillità ci concede: che è il conoscere, che niuna cosa sapemo, et il piú delle volte quello che a noi par vero, è falso, et per contrario quello che ci par falso è vero». Il rispetto della verità, dunque di sé stesso, rende ora doverosa per Castiglione, dalla condizione non di sconfitto ma di accusato, una autoapologia. Alla strumentazione difensiva e offensiva si era appellato Carlo V, per ribattere la violenza inquisitoria del breve papale del 23 giugno 1526: all’imperatore aveva prestato la penna Alfonso Valdés, e i sussulti riformatori avevano diffuso il testo a stampa in Europa, dalla Spagna alla Germania, alle Fiandre. Castiglione deve ora rispondere, privatamente, alle accuse di Clemente VII e della corte romana, giustificare il mancato preannuncio della tragedia che loro non avevano saputo impedire. Sentirsi ripetere che «questi disordini siano passati con molta colpa mia» obbliga la replica al papa e indirettamente all’imperatore, dove le giuste ragioni si rafforzano nella sofferenza razionale prima che cristiana per le calunnie, accettate per il bene della cristianità lacerata: «Vero è che la raggione vorrebe che poi ch’io vego la S.tà V., mio unico S.re e Vicario di Christo in terra, supportar con forte animo et pacientemente una tanto grave calamità non havendola meritata, io anchor supportassi senza dolermi questo dispiacere, il qual a rispetto del suo è picolissimo, ma alla imbecillità dell’animo piú pesa il minimo che alla prudentia e virtuosa fortezza del suo lo infinito. E cosí spero che quella grandezza di cuore accompagnata dal socorso divino aiutarà V. S.tà tanto che vincerà questa procellosa tempesta di fortuna, e viverà molt’anni con molta gloria e tranquilità, a servitio de Dio e benefitio de’ christiani, come suoi devoti servitori desiderano». Qui, dove non finiva ma si interrompeva, anche per le occorrenze dispersive – ci si augura contingenti – degli archivi, incompiuta la nunziatura, i felici ritrovamenti dovuti a Francesco Di Teodoro hanno inserito notizie essenziali: nella lettera alla madre del 15 settembre 1527 (come ribadirà in quella del 28 dicembre 1528, quaranta giorni prima della morte) il conte Baldassarre Castiglione sintetizza lo spirito e l’alta ambizione della sua azione in Spagna: è alla madre che voleva dire e si sentiva di dire la propria verità politica e diplomatica, e a lei affidava, perché la trasmettesse ai figli e ai posteri, l’amara ma non rassegnata difesa del proprio nome: «circa al dispiacer mio della ruina de Roma, la qual cosa, anchorch’io mi sforzi passarla con minor affanno ch’io posso, pur holla sentita e sentola nel core, e Dio sa quante volte la ho veduta in aere e preditta e scritta, ancorché poco me sia stato creduto: bisogna haver patientia». dall’Introduzione di Angelo Stella