La tematica gramsciana di Americanismo e fordismo è stata per una lunga fase proposta come un’analisi «classica» delle novità del capitalismo di fronte alla crisi mondiale. Dilatata spesso oltre i suoi limiti storici, ha poi subito qualche comprensibile reazione di rigetto. È possibile darne oggi una lettura corretta, che ne riveli i punti di efficacia attuale? A chi percorre i nodi di queste pagine, risulterà evidente il punto di partenza della riflessione di Gramsci: la modernizzazione e lo sviluppo delle forze produttive sono una esigenza imprescindibile di quella fase storica. In linea di tendenza, la soluzione del problema può venire solo dall’avvento della classe operaia alla direzione della produzione, della società e dello Stato. È questa una idea-forza presente già nell’elaborazione «consiliare» del Gramsci dell’«Ordine Nuovo». Ma gli sviluppi della crisi mondiale dimostrano che, accanto all’ipotesi socialista, esiste anche una risposta capitalistica al problema della modernizzazione: essa si manifesta non soltanto sul terreno dell’organizzazione della produzione, ma anche su quello della società e dello Stato. L’americanismo esprime appunto per Gramsci la forma più avanzata della sfida capitalistica, capace di integrare innovazione e restaurazione, economia «programmatica» e libertà dei capitalisti, in un processo di «rivoluzione passiva» che rischia di mettere sotto scacco le forze rivoluzionarie. Il ricco apparato di note chiarisce e storicizza questa impostazione gramsciana, situandola all’incrocio di alcune fondamentali tematiche della cultura degli anni ’30: dalla riflessione interna al gruppo dirigente dell’Internazionale, alle discussioni sull’«economia nuova» di Rathenau, ai dibattiti su una ipotetica svolta modernizzatrice dei fascismi europei.